Senza Marcel

06.09.2019

Se n'è andato Marcel Hirscher.

Se n'è andato dalla Coppa del Mondo, dallo sport agonistico, dallo sci sciato ad alto livello: quello che è stato la sua vita per più di un decennio, quello che è stato il suo regno. Ora la Coppa del Mondo dovrà cercarsi un nuovo padrone, nuove mani a cui affidare la sfera di cristallo che segna il primato: qualcuno sarà contento - finalmente un po' di suspense! - ma chi negasse che si è aperto un vuoto difficilmente colmabile mentirebbe, o sarebbe in malafede.

Non se ne va solo uno che ha vinto tutto il vincibile, ma uno che ha cambiato le regole del suo sport quanto meno, ma probabilmente non solo. Marcel Hirscher ha portato lo sci ad un livello di professionalità mai sperimentato prima e ha dimostrato che si può avere una continuità prolungata anche in uno sport individuale, per di più soggetto a mille variabili, di terreno, di clima, di materiali. Certo, per arrivare a tale continuità bisogna esser nati fenomeni, avere alle spalle solidissimi mezzi tecnici, fisici e in un certo senso anche economici, disporre di un team collaudato ed affidabile, aver anche un po' di fortuna: Marcel però ci ha insegnato che tutto questo ensamble, coltivato con passione profonda, e feroce cattiveria agonistica, e sfrenato desiderio di primeggiare, e cura maniacale del dettaglio può portare ad instaurare una sorta di dittatura sportiva inscalfibile.

Che però chiede un prezzo altissimo: sicchè a trent'anni puoi renderti conto di non farcela più a dedicarti ad essa così fino in fondo. E allora puoi decidere di dire basta.

Marcel si ritira quando avrebbe potuto vincere ancora: magari non al ritmo sfrenato degli ultimi due anni, ma certamente a livelli più che dignitosi che molti suoi competitori si sognerebbero. Con questa scelta, peraltro, conferma quanto è andato ripetendo per anni: ossia che i record gli interessavano fino ad un certo punto, a che a raggiungere Stenmark non ci pensava proprio. Forse una dose di "maniavantismo" c'era in queste dichiarazioni: ma ora dimostra che non ha bisogno di superare "quel" record per sentirsi un grandissimo, forse il più grande. D'altra parte, otto coppe del mondo consecutive sono qualcosa di difficilmente immaginabile prima di Marcel... e probabilmente anche dopo. Forse lo sci inizierà a dividere le sue ere in a.M. e p.M. (ante Marcel e post Marcel). Anche in questo, la sua carriera ha segnato una svolta, perchè ha alzato l'asticella come solo pochissimi sono stati in grado di fare (e non mi riferisco certo solo al piccolo mondo dello sci). Ecco perché in tanti dei messaggi che i suoi avversari hanno voluto inviargli in questi giorni ricorre il ringraziamento per averli "costretti" a migliorarsi sempre, per poter sperare di confrontarsi davvero con lui.

E "grazie" è una parola che ritorna spessissimo in queste ore in cui avversari sì, ma anche tifosi, appassionati, esperti, giornalisti di tanti paesi salutano l'addio del fenomeno. E questo accade quando ci si rende conto siamo di fronte a qualcosa che non è patrimonio di un nazione o di una disciplina, ma ha saputo diventare in un certo senso universale, capace di trascendere i confini e i limiti. Certo, non parliamo di una figura dalla popolarità planetaria, quella cioè che solo certe discipline sportive consentono. Ma comunque di qualcuno che è andato "oltre": oltre il suo tempo, oltre il suo paese, oltre il suo sport. E tutto questo solo o quasi per i risultati sul campo: perché personaggio, Marcel non lo è mai stato e mai gli è interessato esserlo. "Troppo" serio, "troppo" professionale, "troppo" glaciale, per poter infiammare certi tipi di platee. E anche troppo ferocemente e tenacemente teso a salvaguardare la propria privacy e a scindere rigorosamente il cotè pubblico (ossia quello sportivo) da quello privato: ad oggi, non risultano immagini del suo bambino, e non sappiamo nemmeno come si chiami!

Ma chi ama un po' lo sci, di tutto questo non sentiva minimamente il bisogno: gli bastava guardarlo scendere in pista, con il suo stile tutt'altro che ortodosso, con quella ferocia che gli faceva mangiare i pali in certi tratti e l'intelligenza che gli permetteva di sapere quando, quanto e dove rallentare un minimo per evitare rischi. Vedevi tutto questo e restavi a bocca aperta, con gli occhi sgranati, perché ti sembrava la cosa più facile del mondo, tanta era la sicurezza con cui lo faceva, lui.

Non era sempre stato così: anche lui aveva dovuto imparare. Precoce sì, ma comunque costretto ad una trafila - carriera junior, coppa Europa, primi passi in CdM - da cui ha appreso l'arte di disciplinarsi, di controllarsi, di ragionare. E l'ha appresa talmente bene da poterla poi applicare ad occhi chiusi, negli ultimi anni della sua carriera. Per un po' è stato anche accusato di far troppi calcoli, di puntare a non sbagliare per accumulare i punti necessari alla conquista della grande coppa, di non emozionare insomma: accuse ingenerose, se si pensa a quanto debba essere difficile camminare sempre su un filo teso tra la necessità di arrivare al traguardo e quella di incamerare punti pesanti. Ma anche questo è stato un grande merito di Marcel: è riuscito a far cambiare idea su di sè a parecchi scettici e detrattori. Li ha convinti uno per uno, li ha portati dalla sua parte con la forza dei fatti. E negli ultimi anni ha peraltro dimostrato che, se voleva, poteva vincere a mani basse senza dover usare troppa strategia.

In questo senso l'apoteosi di Marcel Hirscher è stata la stagione 2017-18: quella della settima Coppa, delle tredici vittorie in stagione e dei due ori olimpici. Il tutto, al termine di una preparazione estiva incompleta, interrotta dalla frattura al piede e dalle sei settimane di gesso. In quell'annata Marcel ha corso leggero, pensando solo a dare il meglio di sè ogni volta senza prospettive del tutto definite: e ha fatto il vuoto. Diventando definitivamente leggenda.

Credevo sinceramente che il suo addio sarebbe arrivato allora, perché una stagione del genere non avrebbe potuto mai esser ripetuta. Invece ce ne ha regalata un'altra, altri trionfi, altri allori, altri record. Ma chi l'ha osservato durante tutto l'inverno scorso si era accorto che dovevamo esser prossimi ai titoli di coda: io almeno lo vedevo benissimo. I segnali erano tanti: esposizione mediatica ancor più ridotta rispetto al passato, pochissima interazione social, un'impressione di stanchezza spesso palese, meno sorrisi, meno entusiasmo, ritorni a casa immediati al termine della gara, zero tentativi di superG e combinate per risparmiare al massimo le energie... In pista no, in pista poi era sempre lo stesso, ma era il contorno che denotava la sua voglia di star sempre meno sui luoghi di gara ed esposto al pubblico. E una volta raggiunto l'ultimo oro mondiale, tutta questa stanchezza si è vista persino in gara, con il mese finale della coppa del mondo 2018-19 non all'altezza della sua fama e della sua carriera.

Così la sua ultima vittoria di Coppa del Mondo resterà quella conseguita a Schladming: una gara impressionante in un luogo che per lui significa moltissimo. Lì conquistò la sua prima Cdm con un finale strepitoso; lì vinse il suo primo titolo mondiale in quella che ancora ricorda come la gara più emozionante di tutta la sua vita; lì realizzò una delle sua leggendarie rimonte in quello slalom in cui aveva corso mezza prima manche al buio con le lenti appannate (cos'era, il 2016?).

L'ultimo mesetto di carriera invece è stato un po' un trascinarsi per le piste, nel desiderio spasmodico che tutto finisse al più presto. Tuttavia, di certo, se avesse voluto, Marcel si sarebbe rialzato anche da questo. D'altra parte, uno dei suoi punti di forza, forse per me in assoluto il più degno di ammirazione, è stata la sua straordinaria capacità di risollevarsi dalle batoste e prender forza da esse. Per esempio, é vero che, come ha detto lui, di fatto non ha mai subito infortuni gravi: ma la sua epopea è iniziata nella stagione successiva ad una caviglia rotta ed ha raggiunto il suo clou dopo un incidente analogo. E inoltre ora noi tutti lo ricordiamo come un vincitore seriale e pressoché infallibile, ma non è stato sempre così. Marcel ha ingoiato parecchi rospi prima di prendersi le sue soddisfazioni. Ne ricordo uno su tutti perché per me è stato l'evento decisivo per la mia "storia" con lui: le Olimpiadi di Sochi. Ci arrivava da favoritissimo, già due coppe del mondo in bacheca e una terza in arrivo. Sbagliò, secondo me, strategia, rinunciò alla combinata ed arrivò sul posto un po' troppo tardi. In ogni caso, si sa, mancò non solo la vittoria ma addirittura il podio in un gigante che avrebbe dovuto dominare, e sfiorò poi lo psicodramma quando al termine della I manche di slalom si trovò ancora nelle retrovie, ma nella II seppe tornare se stesso e conquistò un podio, che fu sì amarissimo per lui (voleva solo l'oro), ma dimostrò quanto orgoglio, quanta forza, quanta grandezza albergassero nel suo spirito: è stato allora che io ho iniziato ad amare Marcel, l'ultima (o forse penultima - devo ancora decidere) grandissima passione sportiva, così grande da andare contro la mia regola aurea, ossia la - diciamo - scarsa simpatia per i vincitori seriali. Prima di Marcel, non avevo mai trepidato per le sorti di un Numero Uno, troppo "banale", troppo main stream... Mi ha fatto cambiare idea, lui. Anche se devo dire che gli anni di passione più intensa non sono stati gli ultimissimi, quelli appunto della grandezza riconosciuta e del dominio incontrastato. I miei ricordi personali più intensi restano legati a momenti di difficoltà, per quanto magari brillantemente superati: ricordo meglio l'uscita di pista nello slalom mondiale di Vail (che mi fece letteralmente piegare le ginocchia e per un istante rimanere senza fiato) che l'oro in combinata di quella stessa manifestazione... o l'oro in combinata a Sankt Moritz sfuggito di un centesimo (che pugno al tavolo tirai quella volta!) che la doppietta siglata dopo pochi giorni...

Ma non posso chiudere la mia riflessione sulla carriera di Marcel Hirscher, colui che resterà nella storia dello sport come un vincitore pazzesco, soffermandomi troppo sulle sue defaillances, anche se le voglio citare per ricordare come siamo stati di fronte alla carriera straordinaria di un uomo. Sì, un uomo. Non un computer, una macchina, un robot, come pure tante volte l'hanno apostrofato. Al contrario: la sua grandezza risalta proprio se si considera il fatto che stiamo parlando di un uomo, anzi direi quasi un ragazzo, visti i parametri attuali, e di uno che - non fosse stato per la sua carriera sportiva eccezionale - sarebbe stato tremendamente "normale", sempre vissuto in un paesino di mezza montagna formato da mille anime, sempre con la stessa ragazza al fianco che ha poi sposato e lo ha reso papà, mai sopra le righe, senza montarsi la testa, pur essendo quello che è stato.

Tra cinquanta giorni è in calendario il gigante di Soelden: sarà il primo evento della stagione p.M. Non sarà mai più la stessa cosa.

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