Qualcuno è profeta in patria

05.08.2019

Nemo propheta in patria è la forma abbreviata, e vulgata, della celebre affermazione nemo propheta acceptus est in patria sua che, secondo i Vangeli, sarebbe stata pronunciata da Gesù Cristo per stigmatizzare la fredda accoglienza dei suoi conterranei; oggi, ci ricorda l'Enciclopedia Treccani, essa è di solito usata per significare che difficilmente si possono vedere riconosciuti i propri meriti nel proprio paese (dove si è per lo più noti come uomini comuni, e con le debolezze di questi), o per lamentare il fatto che spesso le invidie e l'incomprensione dei propri conterranei costringono gli uomini di valore a cercare il successo lontano dalla propria terra d'origine. L'espressione ha assunto una sfumatura di significato ancora diverso quando è stata impiegata in ambito sportivo, ad indicare tutte le difficoltà che un giocatore o una squadra di casa possono incontrare di fronte al proprio pubblico, davanti al quale ci terrebbero tanto a far bella figura e a regalare soddisfazioni, ma spesso non riescono ad esprimersi al meglio. 

Questa sorta di maledizione ha perseguitato per anni la carriera di Dominic Thiem: giocatore oramai considerato forte da un po', divenuto ad oggi fortissimo, proiettato verso grandi traguardi, eppure cocciutamente deciso a portarsi a casa il trofeo del piccolo torneo domestico di Kitzbühel, e costantemente deluso.

Un torneo forse troppo voluto e cercato, al punto da sfuggire anche quando tutto pareva apparecchiato per la sua vittoria. Come nel 2016, quando ci arrivò poche settimane dopo aver disputato la sua prima semifinale del Roland Garros, o peggio ancora l'anno scorso, quando addirittura giocò qui dopo la Finale nello Slam Parigino. Risultato? Due scioccanti eliminazioni all'esordio.

Ma l'altro ieri, Dominic è finalmente (per lui) arrivato ad essere "profeta in patria", dopo aver ingoiato un sacco di delusioni, lui TopTen acclarato da ormai oltre tre anni, in teoria destinato a fare un sol boccone della concorrenza solitamente modesta, classifiche alla mano. Quello di Kitz è, infatti, l'ultimo titolo ATP in palio sulla terra rossa e la stragrande maggioranza dei Top players a fine luglio si è lasciata alla spalle la terra battuta ormai da quel dì: la stagione nordamericana sul cemento incombe, gli US Open sono alle porte. Ovvio, quindi, che sulla terra europea restino in pochi, e siano gli iperspecialisti del rosso, classifica media quando non bassa. E poi c'è Dominic appunto, che iperspecialista però non si può più chiamare dacché ha vinto Indian Wells, eppure finisce per tornare sempre qua (e lo farà pure il prossimo anno, pare)

In molti, osservatori, esperti, tifosi poco empatici, ritengono e sostengono che sia un errore madornale da parte sua, perché gli impedisce di preparare correttamente la suddetta stagione cementara e di ben figurare, quindi, nei due Mille di Canada e Cincinnati, che infatti gli hanno fruttato veramente poco, negli anni (basti pensare che Domi non ha mai vinto un match alla Rogers Cup e ha racimolato un paio di quarti a Cincinnati senza nemmeno saper bene come).

Così, a lume di naso, mi sento di prevedere che quest'anno non andrà molto diversamente, ma bisogna pur dire che il ragazzo 'sta volta ci arriva sì senza preparazione, ma quanto meno con il titolo desiderato in cassaforte. E questo forse può cambiare qualcosina nella sua testa: perché bisogna anche ricordare che nel 2017 provò a saltare il torneino di casa proprio per arrivare meglio in USA e finì malissimo (batosta e Washington, e poi naturalmente in Canada) e nel 2018 invece tornò a Kitz, perse subito, si precipitò in Nordamerica, dove sbarcò a pezzi moralmente e fisicamente, al punto da ammalarsi, e fine della storia.

Questa volta, invece, dalla graziosa località del Tirolo arriva con il titolo in tasca, cercato e ottenuto, finalmente, con lo spirito giusto, una nuova sicurezza, una serena maturità agonistica. La sensazione è che, in passato Dominic avesse leggermente sottostimato l'ostacolo: lui stesso ha ammesso che l'anno scorso, per esempio, si è lasciato andare a scelte che, col senno di poi, sono apparse "unprofessional", come giocare un'esibizione di calcio tennis prima del match d'esordio e partecipare a una quantità di eventi promozionali, incontri con sponsor e così via. Fino all'altr'anno, dunque, desiderio di vincere tanto, ma concentrazione poca. Questa volta, "unser Held" (il Nostro Eroe, come l'ha apostrofato Barbara Schett durante la premiazione) si è concesso il giusto a media e pubblico e si è riparato dal cancan blindandosi con la sua famiglia e il suo team: poche scelte persone di cui fidarsi e stop.

Sì, perchè Kitz sarà un piccolo evento finché si vuole, ma può essere soffocante, se ti tocca di pensare che di fatto esiste quasi solo per te: gli spalti sono sold-out a partire dal mercoledì, cosa che non accade in nessun 250 in giro per il mondo, perché c'è l'idolo di casa in lizza. Non sottovalutiamo il fatto che Dominic in Austria è diventato una vera e propria superstar: gli sponsor se lo contendono, i contratti fioccano, i media lo inseguono (secondo una statistica apparsa qualche mese fa, nel 2018 è stato citato dalla stampa più il suo nome di quello di Marcel Hirscher: in un paese che va pazzo per lo sci, essere più "notiziabile" dell'otto volte vincitore della Coppa del Mondo è un risultato pazzesco!). 

L'abbraccio di Kitz però stavolta si è rivelato accogliente senza essere assillante, ed è stato percepito come qualcosa di emotivamente molto forte che Dominic ha finalmente saputo trasformare in un boost. 

E gli ha permesso di conquistare un titolo, il cui significato può esser compreso solo da chi conosce a fondo il suo vincitore e la sua storia. Potrebbe parere assurdo, lo ripeto, che il Numero Quattro del mondo e bi-finalista Slam sia a tal punto legato a questo evento così irrilevante nel panorama globale e tutto sommato nello stesso palmarès di chi, a 25 anni, ha già in bacheca 14 trofei ATP, di cui un Mille e tre Cinquecento. Ma proviamo a metterci per qualche minuto nei suoi panni e riascoltiamo le sue parole pronunciate con il "Gams" (il camoscio, simbolo di Kitz nonché trofeo del torneo) tra le mani: "Sono venuto qui la prima volta quando avevo sei anni... Devo anche a quella esperienza se sono diventato un giocatore professionista", ha dichiarato al suo pubblico con emozione palpabile, gli occhi quasi lucidi. Ed io riesco davvero ad immaginarmelo, a guardare quelli che erano i campioni dell'epoca con gli occhi pieni di meraviglia, e sognare di emularli un giorno... E ancora, subito dopo: "Qui ho giocato il mio primo match ATP. Qui ho ottenuto i miei primi quarti. Qui ho giocato la mia prima finale..." (nel 2014, con Goffin). Questo allora non è un luogo come tutti: è un luogo del destino, è un luogo del cuore.

Infatti non si tratta nemmeno solo del fatto di giocare "in casa". Teoricamente, infatti, il suo torneo casalingo dovrebbe essere quello di Vienna, visto che è nato a pochi kilometri dalla capitale; lì è cresciuto tennisticamente e lì ha tuttora la sua base. Tuttavia, il 500 di Vienna, che pure è più prestigioso, non è mai stato fino in fondo un suo vero obiettivo: si gioca a fine anno, in una parte di stagione tradizionalmente ostica, in condizioni indoor che non sono di certo ideali per lui, con una concorrenza talvolta agguerrita e decisa a conquistare qualche punticino per le Finals o simili... A Vienna Domi gioca più per dovere che per altro; Kitzbühel invece è proprio una scelta. Una scelta di cuore e non di testa, è evidente. Sarà pure "stupida", come sostiene qualcuno, ma fa anche piacere pensare che in un sistema dominato dalla logica spietata sintetizzabile nella formula "fare risultato, fare punti, fare soldi" ci sia ogni tanto un esiguo spazietto per il quale essere l'eroe di casa per una settimana conta più di tutto. Non so se Dominic abbia idea di chi fosse Blaise Pascal, ma a chi obietta su questo suo atteggiamento potrebbe replicare prendendo a prestito le parole del celebre filosofo: 'Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce'. E la Rogers Cup, allora, vada come vada: porterà più punti e soldi, ma non la stessa emozione.

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