Piccolo grande Peque

07.10.2017

Leggi Schwartzman e pensi: pura razza ariana. Occhi azzurri, biondo, prestante e alto, soprattutto alto. Leggi Diego che viene dall'Argentina e ti viene in mente subito lui, il Pibe de Oro: in campo geniale, veloce, eppure inesorabilmente bassotto. Combini i due elementi, shakeri, e il risultato è quel che non t'aspetti: un tennista da primi trenta al mondo: Diego Sebastian Schwartzman da Buenos Aires. Uno dei più singolari fenomeni del tennis contemporaneo.

Chi ha osservato Diego in campo non ha potuto fare a meno di notarlo: è invariabilmente a corto di centimentri, rispetto al 99,99% dei suoi avversari. E non parliamo delle pertiche alla Isner, con cui l'accostamento diventa quasi esilarante. Ci riferiamo a qualunque giocatore medio, che sta tra i 180 e i 190 centimetri. A Diego l'ATP ne accredita 170, ma la sensazione corrente è che la misura sia parecchio generosa, secondo una consuetudine di molte federazioni sportive che - non si sa perchè - devono sempre far parere gli atleti più aitanti di quanto non siano.

Ma non appena si inizia a giocare, l'attenzione dello spettatore è catturata da ben altro che non sia l'altezza: perchè Schwartzman è un tennista di tutto rispetto. Che sa fare un po' di tutto in maniera più che onesta. E direi quasi a 360 gradi: i risultati delle ultime settimane parlano di un quarto di finale nel Master Mille di Cincinnati, doppiato poco dopo agli US Open, ed ora di una semifinale nel 500 di Tokyo. Meglio, molto meglio di tanti suoi più quotati rivali (connazionali compresi, vero Delpo?).

Certo, non è sempre stato così: la sua carriera, fino a pochi mesi, era quella di un onesto frequentatore di challenger, per lo più su terra battuta, con una classifica tra l'80 e il 60 al mondo, più o meno.

Un bel salto di qualità era stato, già l'anno scorso, l'approdo al suo primo (e finora unico) titolo nel circuito maggiore, ad Istanbul; ma si era trattato pur sempre di un evento minore, per di più ottenuto anche con la complicità di un Grigor Dimitrov particolarmente in vena di "cupio dissolvi", come a volte gli capita.

Invece quest'anno Diego ha inserito un'altra marcia: prima, sull'amata terra rossa, ha conquistato il suo primo quarto di finale importante a Montecarlo, dove la sua corsa è stata fermata solo da sua maestà "the king of clay", Rafa Nadal; poche settimane dopo, al Roland Garros, è stato capace di spaventare al terzo turno un Novak Djokovic che era sì l'ombra di se stesso, ma figurava ufficialmente ancora come numero 2 del mondo; issatosi due set a uno avanti, Diego aveva poi finito per soccombere solo al quinto (peraltro dominato dal Serbo, ad essere onesti).

Quindi, come siè già detto, è arrivata la gloriosa spedizione americana; questa settimana, infine, finale sfiorata a Tokyo, sconfitto in due tiebreak da David Goffin.

Ho avuto occasione di osservarlo in alcuni scampoli di partita negli ultimi giorni e mi pare di poter dire a ragion veduta che ai centimetri mancanti supplisce con tecnica, corsa e "tigna", se mi si passa il termine. E lo fa bene. Per dire, tutto da lui mi sarei aspettata fuorchè servisse degli aces o arrivasse a smashare sugli altrui tentativi di pallonetto. E invece ho visto pure questo, e non penso fosse il sonno delle sei del mattino a causarmi tali traveggole. Diego c'è, Diego ci sa fare.

Di lui, a volte, si sente dire: "Chissà cosa sarebbe diventato con un fisico più normale..." Non esiste la controprova, ma la sensazione è che proprio il suo limite fisico l'abbia spinto ad investire tantissimo su quello che la natura gli ha donato in compenso e che il lavoro ha contribuito a sviluppare. Forse non sarebbe mai stato così mobile, così rapido negli spostamenti, così pronto allo scatto, se avesse avuto chili e centimentri in più da portarsi appresso. Forse non avrebbe affinato tattica e tecnica, che sono più che adeguate per il livello di classifica raggiunto. Forse non sarebbe diventato così grintoso, combattivo, tenace, capace di non arrendersi nemmeno nelle situazioni più compromesse.

E nessuno l'avrebbe mai notato, a differenza di quanto avviene ora. E non solo per la sue dimensioni mignon.

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