Anomalia Ashleigh

Se devo dire una parola che mi viene in mente al nome di Ashleigh Barty è: strana.
È strana la sua carriera, iniziata prestissimo come una sorta di enfant prodige, tra l'altro con il titolo di Wimbledon junior, e terminata inopinatamente a 18 anni, per poi riprendere dopo un paio di anni di pausa e di altro (tra cui il cricket, che pure le ha dato soddisfazioni).
È strana la sua modalità di stare in campo, il suo stile di gioco fatto di geometrie e variazioni, di tecnica e di tattica, così lontano dal prototipo bum-bum che va tanto per la maggiore.
È strana la sua fisicità, rispetto alla modalità prevalente delle valchirie, per di più anche avvenenti, mentre lei è una brevilinea (ufficialmente 1,66 m.), dai tratti decisamente non classici, forse derivanti dal quarto di sangue aborigeno che le proviene da una delle nonne.
Tutta questa stranezza la rende molto poco main stream, attirandole per ora simpatie e tifo piuttosto ridotti. Il dettaglio ancor più strano per me è che, nonostante tutto questo, nemmeno a me andava a genio Ash fino a poco tempo fa. E dico "nonostante", perché di solito amo le eccezioni e simpatizzo per le piccolette, le intelligenti, quelle insomma come lei, che non ha avuto in sorte un fisico bestiale, ma ha saputo compensare con altre doti. Eppure, a pelle, lei non mi piaceva per niente, mi stava proprio un po' sull'anima. L'avversione ha raggiunto il culmine al termine dello scorso US Open, quando Ashleigh conquistò il titolo - il suo primo Slam "senior" in doppio femminile - in coppia con Coco Vandeweghe, una che per l'eleganza che esibisce in campo di solito appello "boscaiola" o "camionista". Me la presi con Ashleigh, per aver fatto vincere qualcosa a "quella lì".
Ma qualche mese fa mi sono resa conto quasi all'improvviso che la Barty non l'avevo mai vista giocare, se non per brevissimi tratti. Pur avendo già conquistato il cosiddetto "Master B" a Zuhai, Ash mi si é rivelata in tutte le sue qualità nel torneo di Sidney di due mesi e mezzo fa. Già una capace di rifilare un 6-1 ad una Petra Kvitova, di solito implacabile nelle finali e in fase decisamente di gran spolvero, è motivo di rispetto e considerazione. Ma poi, anche quando la partita è diventata molto più equilibrata, con una Petra più centrata, Ash ha lasciato una bellissima impressione, Certo, con le armi di cui dispone, che non possono essere quelle di una bombardiera, ma sono comunque varie e ricche. Per dirne una: Ash è piccola, ma serve benissimo, con un numero di ace sorprendente per le sue misure. Ma poi, le geometrie, la capacità di costruire il punto, facendo correre l'avversaria a destra e manca disegnando il campo, come si suol dire... E ancora, la difesa, fatta non solo di corsa ma anche di capacità di restituire sempre all'avversaria una palla complicata e non banale, in modo da farla colpire una, due, tre volte prima di mettere a segno il vincente, e da posizioni sempre più scomode... E infine quello slice, che quasi nessuna sa più eseguire con tale continuità ed efficacia, al punto da trasformarsi da colpo difensivo ad offensivo in men che non si dica. Tutto questo si vide allora, in quella finale poi persa sul filo, ma lottando fino all'ultimo e tutto questo si è rivisto ora, nel suo splendido e vittorioso Miami Open, in particolare nella finale contro Karolina Pliskova.
Sarà anche stata stanca, Karolina, ma si è presa in faccia ben 14 ace, lei che di solito ne mette a segno altrettanti, e su quei ripetuti slice bassi bassi a fil di rete ha fatto una fatica orba, dovendo scendere da un 1,80 o giù di lì... Insomma Ash ha usato ancora una volta tutto il suo repertorio e questa volta è riuscita a portare a compimento una settimana da favola: un titolo pesante e l'ingresso in Top Ten. E la dimostrazione che essere strani non è necessariamente un difetto.
